Antichi edifici millenari che resistono alle intemperie – grazie a un mix di cenere, acqua e calce viva – e edifici moderni, che usano cemento di Portland, pieni di crepe. La differenza pare che la faccia l’acqua di mare.
Quante volte, al cospetto dei capolavori architettonici dell’antichità, ci siamo chiesti quanto devono aver sopportato in termini di sollecitazioni le strutture murarie, spesso realizzate in maniera semplice, eppure efficace. Sono lì apparentemente indistruttibili.
Il segreto viene dal mare
Ma perché, qual è il segreto di questi antichi edifici che non si deteriorano – o lo fanno pochissimo – nel corso degli anni? A far luce sul mistero ci ha pensato l’Università dello Utah con una ricerca, pubblicata sulla rivista American Mineralogist. Precedenti studi avevano reso merito al mix utilizzato per la realizzazione delle opere – composto da cenere vulcanica, malta, tufo e acqua. Adesso pare che l’ingrediente vincente sia da ricercarsi, secondo i ricercatori, nell’acqua di mare, capace di dar vita a cristalli con nuove forme e “davvero rari”.
Ed è in Italia che questa scoperta ha trovato applicazione sul campo. In collaborazione con le autorità italiane e guidati dalla studiosa Marie Jackson, i geologi hanno studiato l’antico molo romano Portus Cosanus a Orbetello, Toscana, analizzandolo con i raggi X: secondo le osservazioni i minerali all’interno della struttura sono cresciuti nelle crepe causate dall’erosione delle onde.
Quando l’acqua di mare spinta dalle onde filtra attraverso il cemento di frangiflutti e pontili ed entra in contatto con la cenere vulcanica permette ai minerali di crescere dando vita a composizioni cariche di silice, simile ai cristalli delle rocce vulcaniche. Questi cristalli non fanno altro che fortificare la cementazione aumentando, così, la resistenza del calcestruzzo. Il paradosso, come spiega la Jackson, e che in realtà di norma questo processo di corrosione avrebbe degli effetti negativi sui materiali moderni. Invece in quelli di allora funziona e prospera.
Molte delle costruzioni di oggi sembrano deteriorarsi a mano a mano che passano gli anni. lI cemento di Portland, utilizzato per costruire dighe e impianti, ad esempio, si sbriciola nel giro di decenni ed è realizzato in forni a temperature elevate che emettono anidride carbonica. Quello dei romani, invece, combinazione di cenere, acqua, calce viva (la reazione pozzolanica) dura da oltre due mila anni. Insomma nel cemento di Portland a distanza di alcuni decenni si verificano crepe, cosa che non avviene in quello romano.
Recuperare le tecniche del passato si può
L’idea di poter realizzare nuove opere attraverso la formula dei romani “a basso impatto ambientale” è quantomeno affascinante e potrebbe dare una mano alla salvaguardia del pianeta, soprattutto in un momento storico in cui il riscaldamento globale è un’emergenza. Sicuramente non sarà applicabile dappertutto – ha sottolineato Jackson – ma perché non provarci?
A volte per andare avanti occorre davvero guardare indietro.
Fonte originale principale: www.huffingtonpost.it