Se il Pnrr è il faro, allora gli attacchi a Mario Draghi degli scorsi giorni opposti da Giorgia Meloni, mettono in difficoltà la stessa presidente del Consiglio con un’ampia fetta del suo governo.
Perché l’attacco all’ex premier non si traduce in una più forte prosecuzione del lavoro per raggiungere i 55 obiettivi da chiudere per ottenere la prossima fetta del fondo europeo.
I ritardi lamentati da Meloni, infatti, aprivano alla possibilità di guadagnare tempo, e ora deve accontentare quelli che Repubblica definisce “i falchi del Pnrr”.
“È un dato incontrovertibile che dei 55 obiettivi da centrare entro fine anno a noi ne sono stati lasciati trenta. Se qualcosa mancasse all’appello non sarebbe colpa nostra. Sarà inevitabile, nel 2023, cambiare qualcosa per rendere più celere e più fluida la capacità di utilizzo dei fondi”, aveva dichiarato Meloni sabato scorso.
Francesco Lollobrigida, il ministro dell’Agricoltura e anche il più vicino alla presidente, ha rincarato la dose: “Il Pnrr era un piano fatto in fretta e furia per spendere e a volte non per farlo bene. In ogni ministero riscontriamo che ci sono misure fatte per utilizzare i fondi, ma non in maniera adeguata”.
Prosegue il ministro: “All’Ue chiediamo di potere rimodulare le risorse e i tempi. Era un tabù demagogico modificare il Pnrr, ma solo per la sinistra”.
Queste considerazioni, cambiano di fatto il rapporto Draghi-Meloni, che a quanto pare in questi mesi hanno continuato ad aggiornarsi. Ma i ritardi dietro i quali tutti i ministri di spesa del governo si stavano arroccando ha provocato una pioggia di accuse sui predecessori.
Draghi si trasforma, dunque, nel capro espiatorio. Bene, ma adesso? Salvini ha cinque obiettivi da completare, Pichetto Fratin ne ha completati tre su nove. Dall’Ue, Gentiloni e gli altri hanno rivolto critiche tra il duro e il gentile sui tempi e sulle contrattazioni al rialzo circa i fondi.
Il ministro di riferimento, Raffaele Fitto, è sotto pressione anche lui per i cantieri del 2023. Assisteremo a un repentino cambio di rotta a meno di due mesi dall’entrata in carica del governo.