Un altro brutto, bruttissimo caso di malasanità. In mezzo alla lodevole eccellenza del nostro sistema sanitario che in questi mesi ha fronteggiato con anima e corpo l’emergenza Covid, piomba ora in scena una vicenda che fa davvero soffrire. Marcello Gregolin, un pensionato di 77 anni di Pordenone, è morto il 13 luglio scorso al culmine di una vera e propria odissea sanitaria. La sua storia è stata raccontata al Gazzettino dalla figlia dell’uomo, Ilenia, decisa a fare chiarezza e a stabilire se si tratti di un caso di malasanità. Sei accessi al pronto soccorso, sempre con forti dolori al petto e alle gambe. Cinque volte rimandato a casa e solo dopo l’ultima visita la diagnosi: tumore.
La prima visita dell’uomo al Pronto soccorso di Pordenone risale al 14 aprile , Gregolin ha un forte dolore al petto. “Gli fanno un elettrocardiogramma, esami del sangue e lo rimandano a casa” racconta la figlia Ilenia. Le condizioni dell’uomo col passare dei giorni si aggravano a quella visita al pronto soccorso ne seguono altre quattro, sempre con lo stesso percorso e lo stesso esito: dimissioni e ritorno a casa. Poi il pensionato non muove più le gambe e i dolori diventano insopportabili.
Il 3 aprile la diagnosi: masse alla schiena, ma non si sa dove il tumore sia nato. “Il medico fa partire in emergenza il papà in Unità spinale a Udine – ricorda Ilenia -. Qui ci dicono che sono metastasi, diagnosi che sente anche il papà perchè è sulla barella. Viene riportato a Pordenone in Degenza breve. Allora decido di chiedere un consulto privato a uno specialista e grazie a lui gli viene fatto un esame istologico. Il medico di Pordenone dice che la situazione è grave, bisogna riportarlo in unità spinale a Udine”. Ma passano i giorni e il 77enne non viene trasferito.
Finalmente all’inizio di giugno Gregolin viene sottoposto a una tac che rivela la diagnosi fatale: le metastasi sono estese a tutto il corpo e ricovero all’unità spinale dell’ospedale di Udine. Il 9 giugno Gregolin viene operato e inizia un ciclo di radioterapia. Ormai inutile perché il 13 luglio muore nella sua casa di Pordenone. E ora la figlia si chiede: “Poteva essere salvato? Poteva vivere di più?”.
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