Partiamo da un presupposto fondamentale: sostenere, come si sono affrettati a fare ieri alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle, che Macron ha copiato il loro reddito di cittadinanza, è sbagliato. E ora vediamo perché, oltre a evidenziare le sostanziali differenze tra l’uno e l’altro provvedimento. Partiamo da alcuni numeri: in Francia i cittadini a rischio povertà dopo i trasferimenti sociali erano 8,6 milioni l’anno scorso, in Italia 12,3 milioni. La misura Eurostat comprende tutte le persone con un reddito disponibile equivalente al di sotto di una soglia che è fissata al 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (compresi, appunto, i sussidi in corso). In Francia le politiche contro l’esclusione sociale pesano per il 4,2% sul totale della spesa pubblica, mentre l’Italia si ferma al 1,2% (viceversa da noi le pensioni assorbono il 64,3% contro il 55% di quelle francesi).
Un tentativo di confronto tra la proposta di “reddito universale di attività” fatta ieri dal presidente Emmanuel Macron e il “reddito di cittadinanza” cui sta lavorando il governo italiano non può che partire da questi numeri. In Italia il 10% della popolazione più povera ha subito un calo di reddito negli ultimi anni, cosa che non è accaduta in Francia dove un articolato sistema di protezione viene rifinanziato da anni. Di conseguenza la disuguaglianza di redditi in Italia, misurata con il coefficiente Gini, è più elevata, oscilla tra lo 0,31 e lo 0,33 contro lo 0,28 francese. La misura cui sta lavorando Macron per il 2020 consiste, stando alle prime anticipazioni di agenzia, nella fusione di almeno tre sussidi già esistenti: il Revenu de solidarité active (il reddito minimo garantito destinato a chi non lavora e non ha più diritto ai sussidi di disoccupazione, pari attualmente a 550,93 euro), le Apl (Aide personnalisée au logement) e la Prime d’activité.
Il reddito universale d’attività, ha assicurato il leader francese, sarà uno strumento “semplice, equo e trasparente. Metteremo insieme il maggior numero di prestazioni sociali affinché si possa finalmente fornire una risposta unica per garantire che la gente viva degnamente”. Ma dovrà anche consentire di riaccedere rapidamente al mondo del lavoro. Ogni beneficiario dovrà infatti iscriversi ad un “percorso di inserimento” in cui sarà impossibile rifiutare oltre due “ragionevoli” offerte professionali. Il Plan pauvreté prevede uno stanziamento totale di 8 miliardi di euro per i prossimi quattro anni. Di questi, 50 milioni di euro contribuiranno agli aiuti all’infanzia e all’inserimento dei giovani in difficoltà, in particolare, per consentire di trovare un tetto, una formazione, un impiego, a chi “non ha una soluzione”.
Previsti anche aiuti ai comuni più poveri per la costruzione di asili nido, l’estensione dei pasti a 1 euro già attuato nelle mense pubbliche di alcune municipalità e la prima colazione gratuita nelle scuole delle zone maggiormente depresse. Il reddito di inclusione italiano è invece un aiuto economico da 188 a 540 euro al mese per le famiglie in povertà assoluta (cioè con un Isee fino a 6mila euro), abbinato a un progetto predisposto dai servizi sociali del Comune per ciascuna famiglia, che è condizione necessaria per accedere al contributo monetario. Solo per quest’anno il Rei è riconosciuto dall’Inps alle famiglie che lo richiedono (fino a giugno sono state 267mila) anche senza la sottoscrizione del progetto personalizzato. Ma dal 1° gennaio 2019 il riconoscimento del reddito di inclusione avverrà solo dopo che la famiglia avrà sottoscritto il progetto e si sarà impegnata a seguirlo. E nell’alveo delle risorse destinate al Rei (2 miliardi per il 2018, 2,54 miliardi per il 2019 e 2,74 miliardi dal 2020), ai progetti di inclusione sono stati destinati per quest’anno 297 milioni (che salgono a 347 milioni nel 2019 e 470 milioni dal 2020).
Secondo le ultime notizie trapelate dai vertici di maggioranza che si sono svolti a palazzo Chigi, l’obiettivo è far partire il nuovo programma nazionale contro la povertà con le pensioni di cittadinanza e la riforma dei Centri per l’impiego già dal 1° gennaio 2019. È un intervento da circa 4 miliardi quello che avrebbe ottenuto un sostanziale via libera prima della partenza del ministro Giovanni Tria per la “due giorni” a Vienna con Ecofin ed Eurogruppo. Quella che si profila sul reddito di cittadinanza è un’operazione in due tappe ma in tempi rapidi: dopo maggio o nel secondo semestre del prossimo anno scatterebbe infatti il percorso per garantire (risorse permettendo) a tutti gli oltre 5 milioni di cittadini al di sotto della soglia di povertà l’assegno da 780 euro. In questo caso la spesa salirebbe a 9-10 miliardi, da coprire, oltre che con l’assorbimento delle risorse destinate al Reddito di inclusione, anche con fondi Ue non solo pescando dal Fse.
Elemento comune tra reddito universale di attività francese e reddito di cittadinanza italiano è il previsto programma di reinserimento lavorativo dei beneficiari (o perlomeno del capofamiglia). E l’architrave di queste misure di attivazione, ben più importante del trasferimento di denaro in sé. In Italia si punterebbe sul rafforzamento dei Centri per l’impiego (oggi vi lavorano meno di 8mila addetti) abbandonando, si immagina, il coinvolgimento degli enti locali previsto dal programma Rei. Una scelta ancora da confermare, certo. Ma vale ricordare, anche in questo caso, che il nostro Paese si colloca da sempre agli ultimi posti nelle classifiche europee per le politiche di attivazione al lavoro, avendo scelto di destinare risorse più importanti agli ammortizzatori sociali.