La forza del marchio “made in Italy” diventa determinante quando si tratta di qualità e garanzia, non soltanto nel nostro paese, ma anche nei mercati internazionali. Il nostro paese diventa sempre più appetibile per le aziende che decidono di rimpatriare dopo aver sperimentato la produzione all’estero e che a causa dell’aumento dei trasporti e della manodopera estera si trovano costretti ad abbandonare quelli che fino a poco tempo fa erano considerati come “paradisi” (Cina, Corea, Romania, Repubblica Ceca).
Se l’ultimo ventennio è stato caratterizzato da una delocalizzazione selvaggia in cui un numero sconfinato di aziende italiane ha scelto di delocalizzare le proprie produzioni oltre confine, il periodo più recente fa registrare un’interessante inversione di tendenza per cui alcune aziende italiane scelgono di fare la strada al contrario e reinsediare tutta la produzione, o solo alcune parti, nel nostro Paese. Ma perché le aziende tornano a produrre in Italia?
Il ritorno in patria
Da Furla ad Artsana, da Tonno Asdomar a Beghelli: sono alcune della aziende che hanno deciso di rilocalizzare nel nostro Paese. Per vari motivi: aumento del costo dei trasporti e della manodopera estera, ma anche forza del marchio made in Italy, sempre più sinonimo di qualità e di garanzia. Tornare a casa. Una scelta fuori dal comune se a farla è un’azienda europea. Ma mentre alcune aziende scelgono di spostare la propria produzione all’estero per abbassare i costi, altre decidono di tornare nei luoghi dove tutto era iniziato.Così come se n’erano andate per sfruttare un vantaggio, così ora che quel vantaggio non c’è più, ora che sono cambiati i fattori determinanti per la competizione sui mercati, imboccano la strada inversa.
Buono per il Paese, buono per l’industria nazionale, che vede invertirsi la tendenza alla delocalizzazione e rimpatriare decine di aziende che negli anni 90 o nei primi Duemila erano emigrate nel Far East o nell’Est Europa. Bene per l’occupazione, perché almeno una parte dei posti di lavoro perduti quando gli stabilimenti si spostavano oltre confine stanno gradualmente tornando in Italia. Il processo di reshoring, cioè il totale o più spesso parziale ritorno in Patria di produzioni che negli anni passati erano state esternalizzate, è cominciato da qualche anno.
Diversi i motivi che hanno determinato questa pur minima inversione di tendenza. I principali sono: l’approvazione in sede europea dell’articolo 7 del regolamento comunitario sulla sicurezza dei prodotti destinati ai consumatori, che introdurrebbe l’obbligo d’indicare l’origine per tutte le merci commercializzate in Unione europea, non soltanto per il food. In molti luoghi lontani dall’Italia i costi della logistica tendono ad aumentare; La differenza nel costo del lavoro non è più abissale come prima, e la qualità della manifattura è inferiore rispetto a certe eccellenze del nostro Paese.
Il made in Italy, inteso come produzione italiana al 100%, è sempre più richiesto dal mercato. Spesso la distanza tra sedi produttive all’estero e centri di ricerca e sviluppo in Italia non permette di rispondere immediatamente alle variazioni del mercato. Alla luce di queste problematiche si capisce perché l’idea di rilocalizzare diventi progressivamente più allettante, anche al netto di tutti gli ostacoli (fiscali, burocratici e di sistema) che rendono difficoltoso il fare impresa nel Belpaese.
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Quali sono le aziende che tornano in Italia?
Nomi di rango del settore alimentare come il Tonno Asdomar. La società produttrice di tonno in scatola, ha trasferito tutta la produzione a Olbia, in Sardegna, nell’ex stabilimento del Tonno Palmera. Nel 2008, ha acquisito impianti e macchinari di Palmera, chiusa per cessata attività, ha assunto parte del personale in cassa integrazione, ha investito 25 milioni di euro per costruire un nuovo stabilimento accanto a quello rilevato. In Portogallo è rimasta la produzione di sgombri, salmone ed altre specialità ittiche.
Argo Tractors. Uno dei leader europei di macchine agricole, con un fatturato di 500 milioni di euro, ha deciso di concentrare tutte le lavorazioni a Fabbrico, Reggio Emilia, con un aumento dei dipendenti da 1600 a 1650.
GPP (Global Garden Products). L’azienda che produce tosaerba, di Castelfranco Veneto (Treviso), con un fatturato di 450 milioni di euro. Negli ultimi due anni, c’è stata la marcia indietro, concentrando ricerca e progettazione in Italia. A seguito di ristrutturazione aziendali, sono state assunte una trentina di persone, tra ingegneri, tecnici ed esperti di marketing.
Felm. L’azienda della famiglia Colombo, produttrice di motori elettrici, con un fatturato di circa 20 milioni di euro, ha sede a Inveruno (Milano). È stata tra le prime a decidere di tornare in Italia e concentrarsi sulla qualità made in Italy. “Abbiamo riportato in Italia la produzione di macchine speciali – spiega all’Espresso Alessandro Alberti, capo della produzione – che sono difficili da far fare all’estero. Gestire tutto dai nostri uffici, con un controllo di qualità interno ci permette di essere puntuali con i nostri clienti, di non avere tempi di attesa legati ai trasporti”.
Seventy. L’azienda di moda fondata nel 1974 da Sergio Tegon, che ancora oggi è al timone insieme con i suoi tre figli, ha concentrato gran parte della produzione di abbigliamento vicino Venezia.
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GTA Moda. Da oltre 50 anni produttrice di pantaloni classici e sportivi, l’azienda è stata acquisita dalla leadership collettiva di Venetwork, il cui socio di maggioranza è Alberto Baban. “Il made in Italy è globalmente riconosciuto proprio per la grande capacità manifatturiera – ha detto in un’intervista Baban – noi ci concentreremo sul prodotto, la sua artigianalità e lanceremo un progetto eticamente valido”.
Artsana. È l’azienda che sta dietro molti prodotti per bambini e non, come gli accessori Chicco, l’abbigliamento Prénatal, le siringhe Pic, i preservativi Control e i deodoranti Lycia, fondata nel 1946 dal Cavaliere del lavoro, Pietro Catelli. Per l’amministratore delegato, Claudio De Conto, la ricetta per superare la crisi è intensificare la produzione italiana e puntare su ricerca e qualità.
Beghelli. Società con 32 anni di esperienza nel campo dell’illuminazione di emergenza, a risparmio energetico e in quello dei sistemi elettronici per la sicurezza domestica e industriale, ha concentrato a Bologna la sua produzione. «La nostra è un’azienda italiana, io sono italiano e sono orgoglioso di esserlo — spiega il fondatore della società Gian Pietro Beghelli al Corriere di Bologna —. Faremo tutto il possibile e anche l’impossibile per aiutare i dipendenti che in questi anni ci hanno consentito di crescere”.
Furla. Il marchio di pelletteria made in Bologna è stato fondato nel lontano 1927 da Aldo e Margherita Furlanetto. Rispetto al 2011, l’amministratore delegato, Eraldo Poletto, ha dichiarato di produrre 300 mila borse in più in Italia. «L’Italia non è mai sparita – aggiunge – parlare di reshoring oggi è forse un fatto di modernità».
Borile Moto, azienda produttrice di motociclette che ha spostato il suo quartier generale soltanto da una regione all’altra, ovvero da Padova a Cinisello Balsamo (Milano). “Le moto di questa azienda sono uniche, tutte di altissima qualità – spiega Alberto Bassi, amministratore delegato della Umberto Borile & Co. – e la decisione di spostare la produzione a Cinisello finalmente ci darà quella spinta produttiva che restando a Padova non avremmo avuto per ragioni logistiche: dobbiamo essere vicini a Milano per esportare con più facilità”.
I Paesi destinati ad attrarre i più consistenti flussi di rilocalizzazione produttiva saranno quelli capaci di offrire i maggiori vantaggi sotto il profilo delle competenze, della vicinanza ai centri di ricerca, ai servizi, alla consulenza tecnica. Se un’azienda ha in programma un investimento per la costruzione di un nuovo stabilimento, conviene metterlo là dove esiste un polo di eccellenza sulle tecnologie 4.0. Il fenomeno del reshoring: è una tendenza che nell’ultimo triennio si è consolidata in tutta Europa e a guidarlo, con il maggior numero di imprese che hanno “rilocalizzato” in patria, sono l’Italia e la Gran Bretagna.
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