“Gli imputati Abbas Shabbar e Shaheen Nazia” hanno “letteralmente accompagnato la figlia a morire” e non “si esclude che sia stata” la madre “l’esecutrice materiale“. Questo è si legge nelle oltre 600 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte di assise di Reggio Emilia che motiva le responsabilità del padre e della madre di Saman Abbas, la giovane pachistana uccisa, entrambi condannati all’ergastolo. I giudici hanno condannato anche lo zio a 16 anni.
La ragazza non fu uccisa per essersi ribellata al matrimonio combinato dai genitori. Ma, in generale, per la sua condotta di vita che li avrebbe “disonorati”, per la sua relazione con un ragazzo che i due non accettavano e per il nuovo progetto di fuga. E a compiere l’assassino sarebbe stata proprio la madre, condannata all’ergastolo in contumacia.
La sentenza
“Gli imputati Abbas Shabbar e Shaheen Nazia” hanno “letteralmente accompagnato la figlia a morire” e non “si esclude che sia stata” la madre “l’esecutrice materiale”. I due sono starti condannati all’ergastolo. Soltanto 14 anni per lo zio, che non sarebbe stato l’esecutore materiale. Assolti i cugini, inizialmente tirati dentro al processo dal fratello di Saman, la cui parabola all’interno della vicenda è stata emblematica.
Shaheen Nazia risulta tuttora latitante, e sulla sua fuga si fanno diverse congetture, tra le quali anche un’ipotesi di suicidio. “Può dirsi indiziariamente accertata la comune volontà degli imputati di commettere l’omicidio della loro stessa figlia. La presenza di entrambi sul luogo del delitto, e il comprovato apporto fornito alla realizzazione dell’evento”.
Per i giudici (presidente Cristina Beretti, estensore Michela Caputo) “eloquenti ed espressivi” sono le movenze e il contegno dei due. Ripresi dalle telecamere del casolare di Novellara, la notte del 30 aprile 2021. La madre, in modo fermo e determinato, bloccando con un gesto risoluto il marito, si inoltra sulla carraia con Saman. “Per quel minuto che non consente di escludere sia stata lei l’esecutrice materiale”. Il marito, che “si mostra tormentato, assumendo atteggiamenti che danno conto della drammaticità di ciò che sta accadendo. Ma che lui resta ad osservare, senza far nulla”. Confermando così “la sua adesione psicologica piena al fatto”.
Le telefonate con lo zio per organizzare l’assassinio
Danish Hasnain, zio di Saman, ha confortato i genitori nell’organizzazione dell’assassinio, per poi partecipare da un punto di vista logistico. La pena richiesta per lui era di 14 anni, ma i giudici ne hanno aggiunti due. Arrivando a un totale di 16, considerando dirimenti le aggravanti.
L’assoluzione dei cugini e il discredito del fratello
I cugini della ragazza, figli dello zio Danish, erano stati tirati in ballo dal fratello Alì Haider. Il quale ha avuto un ribaltamento completo del suo ruolo, partito come testimone chiave.
“Incongruenze, bugie, accuse false”: sono alcuni dei modi con cui la Corte di assise di Reggio Emilia definisce le parole del fratello di Saman, smontando la figura di quello che è invece stato un testimone chiave dell’accusa. I giudici parlano di “intrinseca inattendibilità e inaffidabilità del narrato” del ragazzo, minorenne all’epoca dell’omicidio e ribadiscono in più occasioni come “nessun riscontro, neppure parziale” sia stato trovato alle dichiarazioni di quello che invece è stato un testimone dell’accusa, in particolare nei confronti di zio e cugini, questi ultimi due assolti dalla Corte.
“Tacendo – sottolineano in un passaggio della motivazione – della impressionante serie di non ricordo, oltre 120, con cui si è risposto a larghissima parte dei chiarimenti richiesti dai difensori degli imputati da lui accusati La sentenza arriva alla conclusione di ritenere “fondato il sospetto che le sue dichiarazioni siano state condizionate dalla paura di essere coinvolto lui nella vicenda e dalla costante preoccupazione di tutelare i genitori, nella convinzione, invero fondata, di essersi ormai conquistato la fiducia degli inquirenti, accettando per tal via anche di accusare soggetti come Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, di cui aveva professato prima l’innocenza”.