Un viaggio iniziato e finito drammaticamente in Bosnia, quello di Alì, morto il 21 settembre all’ospedale di Bihac dopo aver passato sette mesi con piedi in cancrena. Bloccato senza documenti, era stato respinto dalla polizia croata mentre cercava di raggiungere l’Europa. Aveva raccontato di essere stato lasciato al gelo della montagna, in mezzo alla neve, senza vestiti e senza scarpe. Si chiamava Khobeib, ma era conosciuto da tutti come Alì. Aveva 31 anni ed era nato in Tunisia.
Una delle tante storie di violenza che arrivano dal confine tra la Bosnia e la Croazia, quella raccontata da Il Fatto Quotidiano, nella porta d’ingresso d’Europa che da più di un anno si è trasformata in una sorta di micidiale imbuto per i migranti in viaggio sulla rotta balcanica. Lorena Fornasir e suo marito Gian Andrea Franchi, due volontari indipendenti che da più di tre anni partono regolarmente dalla loro Trieste per portare assistenza e beni di prima necessità nei campi profughi bosniaci, hanno deciso di mostrare le foto del giovane.
I due raccolgono e rendono pubbliche, con foto e testimonianze, le storie dei migranti e delle sevizie che subiscono dagli agenti di frontiera quando vengono respinti. Come quella di Alì, che Lorena Fornasir ha incontrato nei campi profughi bosniaci. E di cui ha scritto sulla rivista online NuoveRadici. Ricostruire la sua vita è difficile: era arrivato in Italia nel 2011 dopo la primavera araba. In quegli anni si sposta in Francia e in Germania per lavorare. Torna poi in Tunisia, ma a febbraio si rimette in viaggio, diretto in Europa. Prova ad attraversare i Balcani, come fanno decine di persone ogni giorno. E proprio come tanti altri viene fermato dalla polizia.
Gli agenti sloveni lo consegnano ai colleghi croati, che lo costringono a riattraversare il confine. Per giorni cammina a piedi nudi nella neve che copre i boschi. E quando arriva in Bosnia, nei container del campo bosniaco di Bira, i suoi piedi sono completamente congelati. Dice che la polizia gli ha levato vestiti, scarpe e calze. Non sarebbe un caso isolato: negli ultimi mesi altri migranti hanno riferito di aver subito lo stesso trattamento.
Dopo la morte nel reparto di chirurgia dell’ospedale di Bihac, l’attivista per i diritti umani Nawal Soufi, attraverso l’ambasciata, ha riportato il corpo in Tunisia dalla sua famiglia. Come Alì, sono centinaia i migranti che portano i segni delle violenze subite sul confine. Dal 2019 a oggi, i controlli si sono rafforzati e si sono moltiplicate le denunce di maltrattamenti. A marzo Amnesty International ha diffuso un report dettagliato, in cui puntava il dito sui governi europei, per la complicità con “i respingimenti e le espulsioni collettive” di migliaia di persone.
Il governo Croato ha sempre difeso il comportamento della polizia, anche se a luglio, nel corso di un’intervista con la tv svizzera Srf, la presidente Kolinda Grabar Kitarovi ha ammesso che è necessario usare “un po’ di forza quando i migranti vengono respinti”.
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