A soli 11 anni i genitori lo avevano di fatto avviato alla carriera di spacciatore di droga, privandolo della spensieratezza della sua infanzia. Nell’appartamento di famiglia a Milano, in zona piazza Prealpi, padre e madre gli avevano insegnato anche a confezionare le dosi di stupefacenti (soprattutto cocaina, ma anche “fumo”), e lo rendevano partecipe “dell’attività di famiglia” portandolo con loro quando dovevano effettuare una consegna. “Fai velocissimo , vai da tuo padre, prendi ’sto… chiamalo da parte non ti far vedere davanti a nessuno…”. “Stai tranquilla, so quello che faccio…”. “Mettili qui…”. “Sono intelligente”. “Digli “guarda che sta arrivando…“ digli “papà sta arrivando un certo…”. “Sono più furbo di una volpe”. Sono le 21 del 12 aprile 2019, A.B. ha fretta: il cliente è già arrivato, sta aspettando la dose di cocaina davanti al bar. Così lei chiama il figlio, che all’epoca ha appena 11 anni (lo chiameremo Federico con un nome di fantasia), e gli affida senza indugio quell’involucro: deve consegnarlo al padre R.P. (omettiamo le generalità dei genitori per non rendere riconoscibile il minorenne) senza dare troppo nell’occhio. E il ragazzino, che cerca anche di compiacere la madre e di rassicurarla sulle sue capacità di spacciatore, esegue, uscendo di corsa.
Questo e molto altro è raccolto tra le 1.289 pagine della monumentale ordinanza del gip Alessandra Simion che ha chiuso una altrettanto poderosa inchiesta dei carabinieri, coordinata dal pm Gianluca Prisco e dall’aggiunto Alessandra Dolci della Dda. L’indagine si è chiusa ieri all’alba con l’arresto di 37 persone (27 in carcere e 10 ai domiciliari), appartenenti a tre diverse batterie di spacciatori di droga.
Quella più strutturata, l’associazione a delinquere capeggiata dal quarantacinquenne di Petilia Policastro Gabriele Argirò alias “Hulk” (già finito in manette nel 2008 come luogotenente di Mario Carvelli) e dal suo stretto collaboratore Domenico Iamundo, gestiva lo smercio al dettaglio nella zona di piazza Prealpi (storico avamposto dei narcos legati al clan della ‘ndrangheta reggina Serraino-Di Giovine) e aveva il quartier generale proprio nell’abitazione dove risiedeva la famiglia del piccolo Federico, ormai da tempo seguito dai Servizi sociali e ora affidato a una comunità.
Il ragazzo spacciatore, all’epoca dell’avvio delle indagini, non era noto ai servizi sociali. Ora, con il padre in carcere e la madre colpita da una misura cautelare, è stato affidato ad una comunità minorile ed è seguito dai servizi sociali. Tra le pieghe dell’inchiesta è stato dimostrato che il giovanissimo venisse istruito su come preparare le dosi di droga e, almeno in un’occasione, avesse accompagnato il padre durante una consegna.
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