Era seduto sul sedile posteriore della macchina della scorta, quella che seguiva Giovanni Falcone in quel drammatico giorno, il 23 maggio del 1992, in cui un’improvvisa esplosione cambiò per sempre la sua vita. Lui, l’agente Angelo Corbo, sopravvissuto miracolosamente dopo che la sua vettura venne sbalzata in aria per poi riatterrare di schianto, ha deciso di lasciarsi alla spalle Palermo, fuggendo in Toscana, a Firenze, dove ha trascorso gli ultimi 28 anni. Attraverso le pagine de La Stampa, ha voluto ricordare quel drammatico momento, uno degli anniversari più toccanti e amari per la storia del nostro Paese.
“Qui è Quarto Savona, abbiamo urlato alla radio. Ma eravamo isolati. Corremmo con i miei due colleghi verso l’auto del giudice, bianchi di polvere. Falcone era ancora vivo. E per qualche attimo cosciente. Girò la testa verso di noi, ci lanciò uno sguardo come a implorare aiuto, poi reclinò il capo sul finestrino”. Corbo non ama celebrare le ricorrenze, gli anniversari gli sono sempre sembrati “la festa dell’ipocrisia”. Il suo ricordo di quei momenti drammatici è uno dei più duri, un pugno diretto nello stomaco.
L’agente ha trascorso tutta la sua vita, da quel momento in poi, con un supporto psicologico per tentare di lasciarsi alle spalle il trauma di non essere riuscito a salvare Falcone dalla vendetta della mafia. Un senso di colpa che lo ha accompagnato a lungo: “Lo so che contro il tritolo non potevamo fare niente. Ma dentro di me è rimasto un macigno”.
Corbo non si è però arreso, continuando a portare avanti a suo modo la battaglia più dura, quella contro la criminalità organizzata. Gira per le scuole, incontra i ragazzi, racconta: “Faccio vedere loro che non ci sono supereroi, che tutti quanti abbiamo paura, ma che con la forza di volontà si può superare tutto nella vita”.
Autostrade sfida il governo: “Dateci i prestiti o non faremo investimenti”