Intervista al professor Vittorio Emanuele Parsi
a cura di Cristina La Bella.
Dopo quasi ottant’anni, l’Europa è tornata ad essere purtroppo «il posto della guerra». Se la responsabilità è del presidente russo Vladimir Putin, che all’alba del 24 febbraio scorso ha dato l’ordine di invadere la vicina Ucraina, nostro è il dovere di difendere con le unghie la libertà. L’Ue e i suoi Stati membri si sono mostrati sin da subito uniti nel loro sostegno senza riserve a Kiev, condannando fermamente l’aggressione militare ingiustificata della Russia, che ha preso il via poco dopo il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass, situate in territorio ucraino, con la motivazione ufficiale di un’iniziativa di peacekeeping. Il Consiglio europeo, come abbiamo visto in questi lunghi mesi, ha condannato con fermezza gli attacchi indiscriminati di Mosca contro i civili, ribadendo che il diritto internazionale umanitario deve essere rispettato. Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola di Economia e Relazioni internazionali dell’Università Cattolica, autore di un libro edito da Bompiani appena uscito: «Il posto della guerra e il costo della libertà».
Professore, lei scrive nel suo nuovo saggio che la pace non è una resa. Il suo libro è una sonora, ferma e chiara risposta a quanti continuano a mettere Russia e Ucraina sullo stesso piano, dimenticando che c’è un aggressore e un aggredito, una vittima e un carnefice. Cosa si sente di dire ai pacifisti?
Il punto di partenza è un fatto: il ritorno della guerra in Europa ad opera di uno Stato, che ne ha invaso un altro, provocando una rottura nei 78 anni di pace europea. Tutto questo ha prodotto la necessità oggi di concettualizzare che posto ha la guerra. Vede, non si può pensare di evitare la guerra esorcizzandola. La pace è stata costruita in Europa, in questi lunghi decenni, attraverso un duro lavoro di istituzioni di carattere internazionale, ispirate a principi democratici, che hanno edificato un ambiente nel quale le democrazie hanno potuto vivere sicure e che hanno contribuito a rafforzare la stessa idea della superiorità della democrazia rispetto alle autocrazie. Coloro che vanno in giro a sostenere di essere equivicini – badi bene, non equidistanti – ricordano semplicemente un’ipocrisia di fondo inaccettabile. Se c’è qualcuno che aggredisce qualcun altro, bisogna tirare le conseguenze: occorre aiutare chi si deve difendere.
Da qui il titolo «Il posto della guerra e il costo della libertà».
Sì, l’Europa non è più “il posto della pace”, il luogo dal quale il conflitto tra stati era stato efficacemente bandito. Purtroppo è tornata ad essere ciò che per molti secoli era sempre stata: “il posto della guerra”.
Nessuna trattativa può essere intavolata se la Russia non torna alla situazione precedente l’invasione dell’Ucraina. Ad oggi lei vede degli spiragli sul fronte diplomatico? Come dobbiamo interpretare la ritirata dei russi da Kherson, che era, come dire, il simbolo del successo dell’avanzata di Mosca e delle proprie truppe ad Occidente?
A me sembra che i Russi abbiano capito che non riescono a tenere Kherson. Di per sé non è un cambiamento epocale, ma la sensazione è Mosca che stia cercando di cristallizzare la situazione e ottenere un negoziato su una forma armistiziale. La gente fa molta confusione, mi permette una riflessione? Immaginare qui che si fissi una sorta di confine di fatto implica però che la protezione dell’Ucraina sia assicurata dalle potenze occidentali, esattamente come la protezione della Corea del Sud è assicurata dagli Stati Uniti. Non è che si può pensare che si faccia l’armistizio e l’Ucraina resti anche neutrale, proprio perché gli Ucraini non si sentirebbero sicuri. Se i Russi si ritirano sulle linee di partenza del 24 febbraio, da lì si può aprire una trattativa su come fare a gestire i territori occupati e come risarcire gli Ucraini per i danni provocati. Se non c’è questo e ci troviamo dinnanzi ad un armistizio sulla linea del fronte. A quel punto gli Ucraini devono poter ottenere una garanzia, ma non sul fronte internazionale, cioè legata ad una neutralità, ma una garanzia militare, legata ad un’alleanza difensiva.
Lei scrive che «il punto non è fermare la guerra, il punto è salvare la democrazia». Le chiedo: che costo ha la libertà?
Il punto fondamentale è questo: la democrazia non è un porto sicuro, è una navigazione continua. A volte avviene in acque calme, altre in acque tempestose. In questo momento, lei capisce, siamo in acque agitate, perché c’è un’aggressione nei confronti dei principi del sistema internazionale che garantiscono una vita più sicura della democrazia. C’è un altro elemento importante: serve ragionare in termini di “ecologia politica”. Cioè, così come siamo abituati a sopportare un costo ambientale, dobbiamo cominciare a quantificare un costo politico, per proteggere la nostra democrazia.
La struggente resistenza delle donne e degli uomini dell’Ucraina è una grande lezione per tutti noi
Sì, proprio così. Come scrivo nel mio libro, l’Ucraina è la vittima prima dell’aggressione russa, un’aggressione che ha fallito finora tutti i suoi principali obiettivi per la valorosa e appassionata resistenza che le ucraine e gli ucraini le hanno opposto. Con il loro esempio hanno ricordato ai cittadini e alle cittadine di un’Europa attonita che le cose per cui vale la pena vivere sono anche quelle per difendere le quali vale la pena morire.
Sul fronte della politica estera, Meloni è sul serio in continuità con il governo Draghi?
Bisognerà vedere se Meloni riuscirà a tenere a bada i due politici con cui è in coalizione, che mi pare non sopportino molto l’idea di essere guidati da una donna e che mi sembra le stiano mettendo i bastoni tra le ruote ogni volta. Oltretutto, sulla guerra, Salvini e Berlusconi hanno posizioni diverse rispetto dalla sua, sono molto più legati a Mosca. Sappiamo poi che l’elettorato meloniano di riferimento è molto meno atlantico di quanto non lo sia lei. Avrà seguito poi la questione dei migranti, la Meloni si è mossa maldestramente, possiamo dirlo. Un po’ per inesperienza, un po’ perché è marcata stretta da Salvini. La cooperazione è fondamentale, il braccio di ferro non serve a niente.
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