Negli Usa, ancora in piena emergenza coronavirus, se sei disabile non hai diritto alle cure. A raccontare tutto Elena Molinari su Avvenire: “In Tennessee le persone affette da atrofia muscolare spinale verranno ‘escluse’ dalla terapia intensiva. In Minnesota saranno la cirrosi epatica, le malattie polmonari e gli scompensi cardiaci a togliere ai pazienti affetti da Covid-19 il diritto a un respiratore. Il Michigan darà la precedenza ai lavoratori dei servizi essenziali. E nello Stato di Washington, il primo a essere colpito dal coronavirus, così come in quelli di New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado e Oregon, i medici sono chiamati a valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale prima di intervenire, o meno, per salvare una vita”.
I vari Stati degli Usa cercano dunque di fornire ai medici dei criteri guida per prendere le decisioni più difficili: scegliere chi attaccare a un respiratore e chi no. Una selezione, insomma. Il principio è dare priorità a chi è “normale”. Una scelta che ha aperto, giustamente, infinite polemiche. Scrive ancora Elena Molinari: “Fra i circa 36 Stati che hanno reso noti i loro criteri, una decina elenca anche considerazioni di tipo intellettivo, e altri parlano di condizioni precise che possono portare alla discriminazione nei confronti dei disabili”.
L’Alabama, anche in questo caso, è il caso più eclatante. Lo Stato arcinoto per le sue tragiche vicende legate a razzismo e discriminazione, nel suo documento intitolato ‘Scarce Resource Management’ sostiene che i “disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione”. Ma anche frasi contenute nelle linee guida di Washington, come “capacità cognitiva”, o di Maryland e Pennsylvania, come “disturbo neurologico grave”, hanno suscitato l’allarme delle associazioni di difesa dei disabili.
A far paura è che i criteri di accesso alle cure siano costruiti sull’idea in base alla quale alcune vite valgono meno di altre. “Le persone affette da disabilità sono terrorizzate che se le risorse si fanno scarse, verranno inviati in fondo alla fila – sostiene Ari Ne’eman, docente al Lurie Institute for Disability Policy dell’Università Brandeis –. E hanno ragione, perché molti Stati lo affermano in modo abbastanza esplicito nei loro criteri”.
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