Partiamo da un presupposto: all’inizio di febbraio di ogni anno in Italia comanda e conta solo il Festival. Come se il mondo reale si fermasse. La scarsa, scarsissima, affluenza alle urne per elezioni regionali di cui si è parlato poco o niente a causa della cometa Sanremo che ha oscurato tutto, ne è la cartina al tornasole: piaccia o meno, a inizio febbraio l’Italia pensa a Sanremo.
Ed è forse soprattutto per questo che si è persa un’occasione irripetibile. Che è mancato il coraggio, alla Rai soprattutto, di trasformare il palco dell’Ariston da Casa Ferragnez a un pulpito da cui lanciare un messaggio di pace, speranza e libertà. La scelta dei vertici di Viale Mazzini, su pressione di una politica scarsamente atlantista e molto filo putiniana, di non far intervenire in collegamento il presidente ucraino Volodymir Zelensky è degna del girone degli ignavi. E la lettura del messaggio del premier ucraino, da un anno simbolo della resistenza all’invasione russa, da parte del conduttore Amadeus ben oltre le 2 di notte denota ancora di più questa pavida, a tratti indecente, mancanza di coraggio.
Lo ha detto anche Zelensky: il Festival di Sanremo lo guardano in tutto il mondo. Ed è vero. E allora perché ridurre una simile vetrina a polemiche su plug anali esibiti da cantanti gender fluid, ad accuse di razzismo alle italiche stirpi e a litigate coniugali esibite davanti alle telecamere tra un’influencer manichino, incapace di leggere anche i pizzini confezionati dagli autori, e il marito bambino finto ribelle, che prima attacca il governo e poi piange in platea se la moglie lo redarguisce?
Inutile dire che la gestione di questo Festival da parte della Rai ha infastidito non poco là premier Meloni e la maggioranza di governo. Perché il gran rifiuto della tv di Stato a Zelensky non agevola neanche i rapporti diplomatici con altri paesi europei, vedi Francia e Germania.
Peccato. Si poteva e si doveva fare di più. E ora non ci si può certo meravigliare se sulla Rai versione Ponzio Pilato piovano critiche da più parti.